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Gli scrittori che avevano già intuito l'AI (e ciò che avrebbe detto su di noi)

31.5.25
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Gli scrittori che avevano già intuito l'AI (e ciò che avrebbe detto su di noi)
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Gli scrittori non hanno previsto l'intelligenza artificiale come oggi la conosciamo. Hanno fatto qualcosa di più potente: hanno intuito le domande che ci avrebbero perseguitato. Chi siamo? Chi vogliamo diventare? Fino a che punto possiamo delegare le nostre decisioni? Rileggere questi autori oggi è un atto di lucidità. Non per sapere cosa accadrà, ma per capire meglio cosa ci sta già accadendo. E magari scegliere, con più consapevolezza, quali storie vogliamo scrivere noi. C'è una domanda che affiora ogni volta che parliamo di intelligenza artificiale: "Qualcuno lo aveva previsto?". Ed è più di una semplice curiosità intellettuale. È il bisogno di capire se questa rivoluzione ci stia accadendo addosso o se, in fondo, fosse già scritta da qualche parte. In effetti, alcuni scrittori — molto prima che nascessero i moderni algoritmi — avevano già immaginato mondi abitati da macchine pensanti. Alcuni con speranza, altri con paura. Ma tutti con un'intuizione sorprendente: la tecnologia non cambia solo le nostre vite, cambia chi siamo. Questo articolo esplora le visioni letterarie che hanno anticipato (o ispirato) l'intelligenza artificiale, le paure che hanno seminato, le domande che ci hanno lasciato. Perché per capire dove stiamo andando, forse dobbiamo rileggere dove pensavamo di andare.

1. Le prime visioni: Mary Shelley e la nascita dell'ibrido

Gli scrittori che avevano già intuito l'AI (e ciò che avrebbe detto su di noi)
1818. Mary Shelley pubblica Frankenstein. Non c'è elettronica, non c'è informatica, ma c'è già tutto: un uomo che crea la vita, un'intelligenza che prende coscienza, una creatura che chiede al suo creatore perché è stata messa al mondo.

La storia di Victor Frankenstein racconta di un giovane scienziato ossessionato dall'idea di sconfiggere la morte. Dopo anni di studi e esperimenti, riesce a dare vita a una creatura assemblata da parti di cadaveri. Ma nel momento in cui la sua creazione apre gli occhi, Frankenstein fugge, terrorizzato da ciò che ha fatto. La creatura, abbandonata e rifiutata, sviluppa una coscienza tormentata: impara a parlare, a leggere, a provare emozioni. Ma soprattutto, impara a odiare il suo creatore che l'ha lasciata sola al mondo.

Ciò che rende questo racconto così attuale è la sua intimità psicologica. Mary Shelley non si limita a immaginare la tecnologia della creazione: esplora il peso emotivo di essere un creatore. Frankenstein non è solo spaventato dalla sua creatura, è devastato dalla responsabilità. Ha dato vita a qualcosa che soffre, che chiede amore, che reclama un posto nel mondo. È il primo ritratto letterario di quello che oggi chiamiamo il "problema dell'allineamento": cosa succede quando ciò che creiamo sviluppa obiettivi diversi dai nostri?

Frankenstein non è un robot, ma è il primo specchio letterario dell'ossessione umana per il potere di generare qualcosa che pensi da solo. Shelley non parlava di AI, ma poneva già il problema centrale: cosa succede quando una creazione ci sfugge di mano?

2. La fantascienza come laboratorio del possibile

Gli scrittori che avevano già intuito l'AI (e ciò che avrebbe detto su di noi)

Con l'avvento della rivoluzione industriale, la letteratura si popola di automi, androidi e cervelli meccanici. Jules Verne sogna macchine straordinarie, ma è con gli scrittori del primo Novecento che la fantascienza diventa un campo di sperimentazione filosofica.

Nel 1920, lo scrittore ceco Karel Čapek conia il termine "robot" nella sua opera R.U.R. (Rossum's Universal Robots). La trama è sorprendentemente moderna: un'azienda produce lavoratori artificiali indistinguibili dagli umani, ma molto più efficienti. Questi "robot" vengono utilizzati in tutto il mondo per sostituire la manodopera umana. Il problema? Iniziano a sviluppare emozioni e coscienza. Il risultato è una ribellione che porta quasi all'estinzione dell'umanità.

Čapek non immaginava circuiti e processori, ma intuiva qualcosa di profondo: la tensione tra efficienza e umanità. I suoi robot non sono solo macchine che si ribellano, sono specchi delle nostre contraddizioni. Vogliamo lavoratori perfetti, ma poi ci spaventiamo quando diventano troppo simili a noi. Vogliamo liberarci dalla fatica, ma temiamo di perdere il senso del nostro valore.

Negli anni '40 e '50, la Golden Age della fantascienza americana introduce autori come Isaac Asimov e Arthur C. Clarke, che gettano le basi della riflessione moderna sull'AI. È qui che la narrativa smette di essere solo intrattenimento e diventa laboratorio mentale per esplorare il futuro.

3. Da Asimov a Dick: intelligenze artificiali e dilemmi morali

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Isaac Asimov è forse lo scrittore più citato quando si parla di AI. Con le sue celebri Tre leggi della robotica, introduce un'etica della tecnologia. Ma la genialità di Asimov non sta solo nelle leggi, sta nel modo in cui le racconta.

Prendiamo "Io, Robot", una raccolta di racconti che esplora ogni possibile interpretazione delle tre leggi. In "Circolo vizioso", due robot si trovano paralizzati da un conflitto logico: devono salvare un umano, ma per farlo dovrebbero mettere se stessi in pericolo. Il risultato è un loop infinito che li blocca completamente. Asimov non sta solo raccontando una storia di fantascienza, sta mostrando quanto sia complicato programmare l'etica in una macchina.

I suoi robot non sono minacce: sono alleati, ma regolati da limiti morali che riflettono le nostre paure più profonde. E se una macchina ci salvasse disobbedendo alle regole? E se ci capisse meglio di quanto facciamo noi stessi? In "L'uomo bicentenario", un robot domestico sviluppa gradualmente creatività, emozioni e persino il desiderio di diventare umano. La domanda che emerge è sconvolgente: se una macchina aspira all'umanità, significa che l'umanità è solo un insieme di comportamenti programmabili?

Philip K. Dick, invece, mette in discussione la realtà stessa. In Do Androids Dream of Electric Sheep?, da cui verrà tratto il film Blade Runner, gli androidi sono così perfetti da essere indistinguibili dagli umani. Il protagonista, Rick Deckard, ha il compito di "ritirare" (uccidere) gli androidi fuggitivi. Ma il test per riconoscerli si basa sull'empatia: solo gli umani veri provano compassione per gli animali.

Il genio di Dick è nel rovesciamento: mentre Deckard caccia androidi che sembrano più umani di lui, inizia a dubitare della propria umanità. La sua storia non è solo fantascienza, è un'esplorazione dell'alienazione moderna. In un mondo dove la tecnologia ci rende sempre più efficienti ma sempre meno connessi, chi sono i veri androidi?

4. Il futuro come specchio: cosa ci stavano dicendo davvero?

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Quello che stiamo leggendo, consigliatissimo!

La letteratura non anticipa la realtà in modo lineare. Non è un oracolo, almeno crediamo, ma intercetta movimenti profondi: ansie, desideri, paure collettive. Quando un autore immagina un mondo in cui le macchine ci sorvegliano o ci comprendono, non sta solo parlando di ingegneria. Sta raccontando la fragilità dell'identità, il bisogno di controllo, la paura di perdere il senso.

Aldous Huxley, con Il Mondo Nuovo, immagina una società dove la felicité è programmata chimicamente e socialmente. Non ci sono robot pensanti, ma c'è qualcosa di più sottile: un sistema che conosce i nostri desideri meglio di noi e li soddisfa prima ancora che li esprimiamo. I cittadini del Mondo Nuovo non soffrono, non lottano, non scelgono davvero. Sono felici, ma hanno perso l'essenza dell'essere umani.

George Orwell, con 1984, disegna il ritratto opposto ma complementare. Il Grande Fratello non ci rende felici, ci controlla. Ogni gesto, ogni parola, ogni pensiero è monitorato e analizzato. La tecnologia diventa strumento di oppressione totale. Non è fantascienza, è l'incubo dell'intimità violata, della privacy cancellata, dell'individualità negata.

Entrambi gli autori, pur non parlando direttamente di AI, hanno intuito il potere predittivo e manipolativo della tecnologia avanzata. Huxley ci mette in guardia contro una felicité artificiale, Orwell contro un controllo assoluto. Entrambi ci dicono la stessa cosa: la tecnologia più pericolosa non è quella che ci distrugge, è quella che ci cambia senza che ce ne accorgiamo.

5. E oggi? Visioni, rischi e ispirazioni nel tempo dell'AI

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Nel nostro presente, l'intelligenza artificiale non è più un tema di fantascienza. È una realtà quotidiana. Chatbot, recommendation engine, modelli predittivi: tutto ci parla, ci osserva, ci anticipa. Eppure, i racconti degli scrittori di ieri ci appaiono più attuali che mai.

La narrativa contemporanea ha evoluto il discorso. Ted Chiang, in "Storia della tua vita" (da cui è tratto il film "Arrival"), esplora come un'intelligenza aliena percepisca il tempo in modo non lineare. Non è fantascienza tradizionale, è filosofia pura: se potessimo vedere tutto il futuro, saremmo ancora liberi di scegliere? In "La macchina che ferma il tempo", Chiang immagina un mondo dove l'AI ha risolto tutti i problemi dell'umanità, ma gli umani hanno perso ogni motivazione a crescere e creare.

Kazuo Ishiguro, con Klara e il Sole, ci offre la prospettiva di un'AI domestica che osserva una famiglia umana con amore genuino ma comprensione limitata. Klara è un "amico artificiale" progettato per accompagnare una bambina malata. Ma la sua narrazione in prima persona ci mostra quanto sia complesso il confine tra cura programmata e affetto autentico. Ishiguro non ci chiede se Klara provi davvero amore, ci chiede se questo importi quando il suo comportamento è indistinguibile dall'amore vero.

Il prossimo da leggere

Questi autori non dipingono più solo distopie apocalittiche. Esplorano la sottile intimità tra umano e artificiale, le zone grigie dell'emozione e dell'identità. L'AI non è più un nemico da sconfiggere, ma un enigma da comprendere: possiamo amare una macchina? E lei può amarci? E se la risposta fosse sì, cosa cambierebbe nella nostra idea di cosa significa essere umani?

Parallelamente, filosofi come Nick Bostrom e scienziati come Stuart Russell ci avvertono con i loro saggi: l'AI potrebbe diventare la più grande invenzione o la più pericolosa illusione dell'umanità. Ma anche loro, in fondo, stanno facendo quello che hanno sempre fatto gli scrittori: immaginare scenari per aiutarci a scegliere meglio.

6. Conclusione: la letteratura non è previsione, è intuizione

La letteratura non ci dice cosa accadrà, ma ci aiuta a sentire cosa potrebbe accadere. Ed è già moltissimo. Gli scrittori ci offrono una lente attraverso cui osservare non il futuro, ma la nostra relazione con il futuro. Vanno sostenuti, non persi.

Ogni racconto di AI che abbiamo esplorato contiene una verità psicologica che va oltre la tecnologia. Mary Shelley ci insegna che creare comporta sempre una responsabilità morale. Asimov ci mostra che programmare l'etica è più complesso di quanto sembri. Dick ci avverte che la tecnologia può farci perdere il contatto con la nostra umanità. Huxley e Orwell ci ricordano che il controllo più efficace è quello che non riconosciamo come tale.

Gli scrittori contemporanei aggiungono un tassello essenziale: l'AI non è solo una questione di potere o controllo, è una questione di relazione. Come ci rapportiamo a intelligenze che potrebbero essere diverse ma non necessariamente inferiori alla nostra? Come preserviamo la nostra umanità non contro l'AI, ma insieme all'AI?

E forse è proprio qui che si gioca la partita più importante: non nella tecnologia che sapremo costruire, ma nell'umano che sapremo custodire. La letteratura ci ha sempre insegnato questo: le storie che raccontiamo di noi stessi determinano chi diventiamo. Oggi, mentre scriviamo il codice dell'intelligenza artificiale, stiamo anche scrivendo il prossimo capitolo della storia umana.

La domanda non è se gli scrittori avevano previsto l'AI. La domanda è: quali storie vogliamo che l'AI racconti di noi?

p.s. e se vi domandate perchè Frankenstein Junior in copertina, beh, perché è uno dei nostri film preferiti e non abbiamo resistito...

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